E’ IL CREPUSCOLO DELL’ ERA ORLANDO , NON PUO’ ESSERLO PER L’ INTERA CITTA’
Da REPUBBLICA “ 28/05/21 di Fabrizio Lentini
Il crepuscolo dell’era Orlando è il crepuscolo di una città.
O, meglio, di una certa idea della città della quale Leoluca Orlando è stato il profeta, il protagonista, il cantore e, adesso, anche il carnefice e la vittima al tempo stesso.
L’idea di una Palermo redimibile, in cammino verso la modernità e la legalità, una Palermo in cui la cultura si fa turismo ed economia, stride ormai con i fotogrammi della vita quotidiana di un popolo che vede antiche tare e nuovi mali riemergere e a tratti sommergere quel che di buono si era costruito.
Il bicchiere mezzo vuoto, di fronte alle strade sporche e dissestate, alle 900 bare insepolte, ai ponti pericolanti, all’abusivismo senza controlli e al traffico senza limiti, fa quasi svanire quello mezzo pieno.
Palermo – anche nei punti più alti della sua autonarrazione – non è mai stata Zurigo.
Una città che non si rassegna ai suoi vizi secolari, che prova a risorgere, che proietta fuori da sé un’immagine diversa rispetto a quella di un passato intrecciato con la mafia, gli scempi urbanistici, l’assenza di servizi, il favore al posto della regola.
Oggi il profeta non ha più parole, la “città in ginocchio” per il virus e la crisi è di nuovo tentata dalla resa, lo spettro dell’irredimibilità torna ad aggirarsi, dal centro estenuato dagli eterni cantieri fino alle periferie assuefatte al brutto.
Nessuno più di Orlando ha incarnato dagli anni Ottanta a oggi l’autobiografia di una città: i suoi furori e i suoi ripiegamenti, i suoi slanci e le sue battute d’arresto, i suoi eroismi e i suoi compromessi, le sue utopie e i suoi proclami rodomonteschi.
Palermo è stata Orlando, Orlando è stato Palermo.
Il che ha prodotto una confusione di ruoli, una delega in bianco che ha deresponsabilizzato i cittadini e ha caricato il sindaco di aspettative troppo grandi per essere soddisfatte.
Fu anzitutto la memoria degli anni Novanta, con il risanamento del centro storico, l’eliminazione dei doppi turni nelle scuole, l’apertura del Massimo e dello Spasimo, di Villa Niscemi e del Palasport, l’informatizzazione dell’anagrafe, a proiettare di nuovo nel 2012 Orlando a Palazzo delle Aquile, in un matrimonio più d’interesse che d’amore.
Ma i dodici anni passati avevano cambiato, e molto, contesto e protagonisti: il Comune aveva le casse vuote e non piene come prima, quella generazione di militanti appassionati che aveva prodotto assessori infaticabili ed entusiasti era ormai consegnata alla storia, la burocrazia giovane e capace degli anni Novanta si era demotivata e assottigliata, senza possibilità di ricambi perché la pletora di precari, reclutati da Orlando e poi moltiplicati dai ras del centrodestra, aveva prodotto un overbooking micidiale sguarnendo i livelli più qualificati.
Nel frattempo però, lontana da ideologie, slogan e riflettori, nei quartieri e nelle borgate, nell’associazionismo e nella cultura, cresceva un’altra Palermo, non dipendente dal pubblico e capace di sbracciarsi senza tornaconti, di impegnarsi senza contributi, per ripulire una spiaggia o adottare un giardino.
Il maggior peccato di Orlando è non avere saputo, o voluto, dialogare con questa Palermo nuova, rinchiudendosi con pochi fedelissimi in un Palazzo sempre più asfittico.
Il risultato di tutto ciò è quel che è sotto i nostri occhi: una città invecchiata nelle infrastrutture e impoverita nei servizi, non attrattiva per gli investimenti produttivi pur potendo offrire bellezza, storia, idee, energie.
Nel crepuscolo dell’era Orlando, resta la disperata speranza che, per quanto difficile, si possa ancora trovare l’alba dentro l’imbrunire.
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