I pugnalatori di Palermo: nasce la “strategia della tensione”

C’è una vicenda misteriosa  ormai dimenticata , avvenuta subito dopo la nascita dell’Unità d’Italia,  che spiega molto più di tanti trattati il clima politico di Palermo e dell’Italia in generale in quel periodo ma non solo.

Tale vicenda è passata alla storia come “la notte dei pugnalatori

La notte tra il primo e il due ottobre del 1862 “… fatti orribili funestarono Palermo…”.

Il Giornale Officiale di Sicilia in prima pagina, la mattina seguente, così descrisse la vicenda:

Alla stessa ora, in diversi punti della città fra loro quasi equidistanti  13 persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. I feriti danno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un sol modo, erano di pari statura, sicché vi fu un momento che si poté credere, uno solo”.

Dalle prime indagini emerse che i 13 accoltellati non si conoscevano tra di loro e che non erano collegati ad ambienti malavitosi o politici : inoltre  gli accoltellatori agirono non per uccidere o per rapinare (l’unica vittima, un gestore di un banco di lotto, morì dissanguato perché sfortunatamente la coltellata gli recise un’arteria ed i soccorsi tardarono ad intervenire).

L’azione fu ben organizzata e probabilmente le indagini non avrebbero portato a nessun risultato cioè sarebbe stata il primo dei tanti misteri irrisolti del nascente Stato italiano.

Ma un  protagonista di tale vicenda ebbe la  sfortuna di imbattersi, dopo aver pugnalato un impiegato della dogana, in tre sottotenenti dell’esercito e in un capitano della P.S. Nonostante il tentativo di dileguarsi nei vicoli intorno al Palazzo Resuttana, il fuggitivo venne fermato dai quattro militari e portato al più vicino posto di polizia, dove fu identificato come Angelo D’Angelo di anni 38, di professione lustrascarpe.

Nelle sue tasche gli furono trovati un coltello a scatto con una lama lunga 15 cm, con tracce evidenti di sangue e nove tarì (moneta ancora in circolazione in Sicilia). Il D’Angelo, in un primo momento, negò tutto, anche l’evidenza, ma dopo qualche ora di interrogatorio, “un pò rude”, confessò.

Dichiarò che qualche giorno prima, era stato avvicinato da un suo conoscente, un certo Gaetano Castelli, il quale gli propose uno strano lavoretto e cioè accoltellare in una certa ora e in un certo giorno il primo passante che gli capitava a tiro. Il D’Angelo, nonostante non fosse uno che rifiutava tali lavoretti, rimase perplesso, ma il Castelli gli spiegò che si trattava di cose politiche, “cose di burbuni”.

Gli fu detto che non sarebbe stato il solo a fare “tale lavoretto” e che la paga era di tutto rispetto, tre tarì al giorno. Quest’ultimo fu l’argomento decisivo che distolse le perplessità “ morali”  e i dubbi del D’Angelo.

Durante l’interrogatorio fece i nomi di undici accoltellatori. Oltre a Castelli Gaetano il gruppo era composto anche da Calì Giuseppe, Masotto Pasquale, Favara Salvatore, Termini Giuseppe, Oneri Francesco, Denaro Giuseppe, Girone Giuseppe, Girone Salvatore, Scrimo Onofrio, Lo Monaco Antonino.

Durante l’inchiesta, i carabinieri scoprirono anche il nome del 13° accoltellatore, tale Di Giovanni Giuseppe, che però “stranamente”, non fu mai  interrogato e processato, nonostante il suo nome fosse stato messo a disposizione della magistratura.

Con la scoperta degli autori materiali di tali atti di violenza, l’inchiesta non poteva essere considerata chiusa, mancava infatti il mandante, ma soprattutto il movente.

Il D’Angelo, dopo qualche titubanza, si decise a rivelare il nome del personaggio che stava dietro a tali attentati.

Il procuratore del re Guido Giocosa raccolse tale testimonianza, e, nonostante fosse da poco a Palermo, si rese conto che l’inchiesta stava entrando in un terreno minato. Secondo la confessione del D’Angelo, il mandante era il senatore del regno Romualdo Trigona, principe di Santa Elia, uomo di fiducia del governo sabaudo in Sicilia, oltre che uno  dei più potenti personaggi della nobiltà.
Appariva chiaro che se ciò era vero la pista “ borbonica”  crollava miseramente e si aprivano inquietanti  risvolti

Il Trigona, tirato in ballo dal pentito negò tutto e parlò di macchinazioni da parte dei nemici dell’Italia per infangare il proprio onore e il suo casato. Il giudice Giocosa capì l’aria che tirava e fece finta di credere al principe Trigona e stralciò il suo nome dall’inchiesta nonostante le pesanti accuse.

Il processo iniziò l’8 gennaio del 1863 presso la Corte d’Assise di Palermo. L’accusa per tutti gli imputati fu quella di “tentato omicidio, di omicidio e di attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di governo”. Fu un processo senza storia, infatti dopo solo quattro giorni, arrivò la sentenza.

Furono condannati a morte Gaetano Castelli, Pasquale Masotto e Giuseppe Calì accusati di essere gli organizzatori di tali attentati mentre gli altri otto furono condannati ai lavori forzati a vita; il D’Angelo, per il contributo dato all’inchiesta, fu condannato a soli 20 anni.

Giustizia era fatta?

Nemmeno per sogno.

Chi erano i mandanti?

Nella sentenza si parla del “partito dei borboni”, ma non si fanno mai nomi. E’ vero che durante il processo il nome del principe di Trigona echeggiò sommessamente, ma alla fine, i mandanti rimasero sconosciuti.

Cosa speravano di ottenere questi mandanti sconosciuti?

Era chiaro che una vicenda del genere più che a un ipotetico ritorno al regime borbonico, creava nell’opinione pubblica un clima di paura e di sospetto che avrebbe favorito la destra più conservatrice e reazionaria  per spingere il paese verso una svolta autoritaria, cosa che effettivamente avvenne in seguito, con la repressione di qualunque forma di dissenso.

Possiamo definire “ la notte dei coltelli di Palermo” come il primo esempio di strategia della tensione nel nostro paese (tale tesi fu portata avanti da Leonardo Sciascia nel suo libro “I Pugnalatori” pubblicato nel 1974).

Ogni qualvolta bisogna stroncare un processo democratico, ecco che i coltelli, le bombe, le pistole o le lupare, entrano in azione per creare nell’opinione pubblica un bisogno di ordine che qualcuno raccoglie.

P.S. Questa vicenda è emblematica perché ci fa capire  che spesso, chi si erge come paladino dell’ordine è lo stesso che arma gli attentatori.

Troppo spesso dietro gli attentati e le stragi politiche e mafiose ci sono degli “ insospettabili”  che da queste vicende traggono vantaggi notevoli.

Chi sa quanti  “principi di Santa Elia” ci sono stati in questi anni e quanti stragi mafiose e politiche hanno avuto  mandanti “eccellenti” e quanti magistrati  hanno capito “l’aria che tirava”e hanno  stralciato dalle loro inchieste ” nomi eccellenti” nonostante i sospetti.

Per finire vorremmo sottolineare un ulteriore mistero : durante l’inchiesta, i carabinieri scoprirono anche il nome del 13° accoltellatore, tale Di Giovanni Giuseppe, che però “stranamente”, non fu mai  interrogato e processato, nonostante il suo nome fosse stato messo a disposizione della magistratura.

Chi sa perché ?

Post correlati

Lascia un commento