Lo ZEN di Palermo continua a far discutere…Ma quand’è che si passerà ai fatti?

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Spett.le Comitato, visto il risvegliarsi dell’interesse sull’argomento relativo alla “rigenerazione urbana dello ZEN”, cosa della quale mi sono interessato con un progetto e con diversi scritti, anche sul Vs. sito web, mi è stato chiesto da alcuni palermitani di scrivere nuovamente sull’argomento affinché, finalmente,  si passi dalle parole ai fatti.

Mesi fa avevo pubblicato su “mobilitapalermo” una mia lettera aperta al sindaco Leoluca Orlando, lettera che aveva suscitato un piacevole e costruttivo dibattito. A seguito di quella lettera sono stato contattato dal sindaco e dall’assessore Giuffré, con la promessa che presto il progetto sarebbe stato presentato nel capoluogo siciliano per sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica sulle problematiche del quartiere, troppo spesso strumentalizzate per i più svariati interessi. Purtroppo, ovviamente, tra le reali intenzioni e le miriadi di problematiche che possono attanagliare un’amministrazione cittadina ci sono tempi e distanze difficilmente coniugabili, quindi fino ad oggi non è stato possibile mantenere questa promessa, per la quale spero ancora.E’ stato quindi per me un grande piacere apprendere nei giorni scorsi che la dr.ssa Spallitta sembra aver raccolto la proposta di demolire e ricostruire il quartiere più tristemente noto d’Italia. La dr.ssa Spallitta mi ha anche contattato, dicendomi di essere interessata ad organizzare presto a Palermo una presentazione ufficiale di questa proposta, una presentazione che faccia comprendere come la cosa possa realizzarsi nel rispetto dei luoghi e della gente, ed è per questo ho acettato di scrivere il pezzo che vi allego, nel quale vengono spiegate tante cose utili da conoscere prima di qualsivoglia strumentalizzazione, politica o ideologica che sia.

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Mesi addietro, irritato dal modo in cui la trasmissione televisiva Uno Mattina aveva presentato, strumentalizzandola a proprio piacimento, la situazione dello ZEN di Palermo, scrissi una lettera aperta al sindaco Leoluca Orlando nella quale esprimevo la mia solidarietà nei suoi confronti e, ovviamente, nei confronti degli sfortunati residenti dello ZEN e delle persone intervistate e le cui parole di speranza erano state abilmente fatte sparire dal servizio televisivo per consentire la strumentalizzazione giornalistica … per esempio le parole della coraggiosa e splendida imprenditrice Maruzza Battaglia del LAB ZEN 2, tristemente sfrattata dai locali che utilizzava dando lavoro, dignità e speranza a quella “terra di nessuno”!

In quella lettera avevo espresso al sindaco la mia intenzione di donare alla città il mio progetto di rigenerazione urbana dello ZEN.

Quel progetto mi venne richiesto un paio di anni fa da un gruppo di cittadini palermitani i quali, stufi del menefreghismo e dell’ipocrisia dei politici e degli accademici intorno allo scottante argomento ZEN, pensarono di farmi sviluppare, analogamente a quanto avevo fatto per il Corviale di Roma, un progetto che dimostrasse la possibilità di risolvere questa annosa e vergognosa problematica[1].

Purtroppo però, i tempi della burocrazia italiana e le priorità della politica del nostro Paese sono tali che difficilmente si possa sperare che le cose possano migliorare nell’immediato … davvero un peccato, perché il mio modello per la rigenerazione urbana dello ZEN, per come è stato concepito, avrebbe potuto essere uno degli argomenti chiave per giustificare la candidatura di Palermo Capitale della Cultura Europea del 2019 e, ovviamente, per il riscatto di una comunità, quella siciliana, che oltre ad essere vittima del pregiudizio, è stata ed è tutt’oggi vittima delle politiche che hanno consentito ad alcuni grandi gruppi industriali di sfruttare il territorio e la manodopera locale finché gli è convenuto, per poi smantellare quanto realizzato con fondi statali ed andare a produrre in luoghi dove la schiavitù è ancora consentita … chi vuol capire capisca!

C’è da dire che, ad aggravare certe problematiche difficili da estirpare, quando parliamo di urbanistica e architettura dobbiamo mettere in conto la terribile forma di pregiudizio ideologico serpeggiante tra gli architetti, i docenti e gli urbanisti italiani i quali, per deprecabili ragioni, piuttosto che condannare, tendono a difendere questo vergognoso quartiere criminogeno, partorito dalla mente di individui i quali, accecati dalla folle ideologia di quegli anni, amavano teorizzare che “che i centri storici fossero l’incarnazione della “malvagità borghese”, e come tali dovessero essere abbandonati perché non consoni alla emergente classe operaia”.

Certi personaggi, col loro potere persuasivo, hanno arrecato un danno incalcolabile alla società, a livello sociale ed economico, ragion per cui andrebbero messi alla berlina e condannati a vivere nei luoghi che hanno progettato.

Si rifletta infatti sul fatto che quella visione antiborghese si tradusse nella repentina espansione a macchia d’olio delle città con “quartieri” costituiti da scatoloni di cemento, zone monofunzionali, assenza di luoghi di aggregazione e conseguente disagio sociale, consumo di territorio, altissimi costi di trasporto e mobilità e tutto quel “cancro economico” che oggi strozza le famiglie italiane!

Gli unici a trarre beneficio da tali politiche urbanistiche furono, ovviamente, gli speculatori fondiari e immobiliari, mentre il settore artigianale iniziò la sua parabola discendente verso la sparizione definitiva … evidentemente, l’opera non standardizzata degli artigiani era troppo borghese per poter avere ancora un valore!

A completamento della mia condanna nei confronti dell’attuale ZEN, del suo gruppo di progettisti, dei politici che consentirono tale scempio e dell’elite culturale attuale che continua a difendere questa mostruosità voglio ricordare le due facce di Vittorio Gregotti, capogruppo del progetto per lo ZEN 2 il quale, mentre all’epoca del progetto sosteneva che «il fine ultimo fosse quello di materializzare l’idea che la città storica, espressione delle classi sociali che avevano dominato e oppresso la società umana, doveva essere abbandonata ai suoi fondatori, mentre alle classi sociali popolari in ascensione sarebbero stati destinati i nuovi quartieri costruiti in periferia che, aggregandosi, avrebbero finito col generare la Nuova Gerusalemme: la città della società senza classi, libera, giusta e fraterna»[2], una volta intervistato da Enrico Lucci de “le Iene”, (puntata del 20 febbraio 2007) alla domanda «perché, se sostiene che sia tanto riuscito e bello non ci va lei a vivere allo ZEN?» rispose: «che c’entra, io faccio l’architetto, non faccio il proletario!»

Ora penso che sia giunto il momento di dire basta all’ipocrisia, e non solo a quella dei progettisti, ma soprattutto quella della classe politica la quale, mentre in prossimità delle elezioni promette mare e monti con comizi miranti a dimostrare l’attenzione nei confronti dei meno fortunati, una volta ottenuto il proprio seggio politico si dedica solo alla difesa dei propri privilegi dimenticando le promesse fatte ai propri elettori bisognosi.

A questi miopi politici vorrei ricordare l’ammonimento del socialista utopista inglese Owen ai primi dell’800: «Quando la borghesia si accorgerà che le città sono diventate delle polveriere, che in esse maturano idee rivoluzionarie, e addirittura vere rivoluzioni, in quel momento crederà opportuno intervenire non tanto per cercare di migliorare la condizione della classe operaia, quanto per conservare se stessa e il suo potere». Questo ammonimento potremmo parafrasarlo parlando di qualità della vita delle periferie e dei centri storici, laddove il miglioramento delle periferie potrebbe servire a tutelare i nostri centri … garantendo altresì a certi politici di mantenere il proprio posto senza rischi di rivoluzioni ormai alle porte in tutta Europa!

In tutta questa situazione mi fa rabbia pensare di aver fatto – a mie spese e perché convinto dell’onestà delle persone e degli ideali sociali che dovrebbero presiedere alle politiche urbanistiche – un progetto che, mentre all’estero (USA, Spagna, Russia, Australia, Canada) ha riscosso un incredibile successo, qui in Italia è rimasto sconosciuto, oppure criticato (anche senza averlo mai visto) da parte di colleghi i quali, per mere ragioni ideologiche o di invidia ingiustificata, si sono perfino permessi di lanciare accuse infamanti senza nemmeno sapere di cosa stessero parlando! Viviamo in un Paese davvero strano!

Il mio progetto non vuole essere “IL” progetto, ma “UN” progetto per la rigenerazione urbana dello ZEN; un progetto concepito non per togliere lavoro ai professionisti ed agli operai locali, ma per dar loro da lavorare. Si tratta di un progetto che dimostra come si possa rivedere l’intero modo di concepire l’urbanistica e l’architettura italiana senza avere la presunzione di essere l’opera di un demiurgo in possesso del dono della sapienza per grazia ricevuta.

La strategia sociale ed economica del progetto infatti, parte proprio dall’umiltà di voler recuperare cose che noi stessi facevamo qui in Italia prima di prostrarci davanti agli interessi privati … prima di certe scellerate decisioni infatti, lo Stato era parte integrante del processo produttivo, l’Istituto per le Case Popolari risultava essere una florida azienda che, oltre ad avere i conti in positivo, generava migliaia di posti di lavoro e costruiva in maniera durevole, prevenendo le possibili spese di manutenzione future che finiscono col gravare sulle tasse dei cittadini!

Per come la vedo io, e per quanto ho avuto modo di studiare e scrivere nel corso degli anni, penso che sarebbe necessario provare a ristudiare la nostra storia, alla ricerca di lezioni del nostro passato, nemmeno tanto remoto, dalle quali possa trarsi l’insegnamento per poter ribaltare le sorti del Paese.

Più di ogni mia altra parola, penso possa tornare utile a tutti conoscere un piccolissimo aneddoto dell’Italia di cento anni fa, del quale ho scritto ne “La Città Sostenibile è Possibile”, aneddoto che ha ispirato i miei progetti per la rigenerazione urbana del Corviale di Roma e dello ZEN di Palermo.

Si tratta di un aneddoto che ci ricorda come, certe volte, per uscire dalla mischia bisognerebbe entrarci per intero, un aneddoto che, se ben compreso ed esteso a tutti i campi dell’economia nazionale, potrebbe aiutarci a capire come sarebbe possibile generare occupazione, risanando al contempo le nostre città e l’economia del Paese.

Il futuro dello ZEN può passare attraverso una “piccola” storia italiana

La conoscenza della nostra storia potrebbe esserci d’aiuto, rievocandoci le frumentationes (distribuzioni gratuite del grano) che gli antichi romani istituirono quando gli armatori privati che gestivano il commercio del grano approfittarono della “liberalizzazione” del mercato, speculando sul prezzo. La cosa servì a calmierare il prezzo ed obbligare gli speculatori ad abbassare la cresta.

Ma non occorre andare così lontano per imparare cosa fare per porre un freno allo sperpero di denaro pubblico.

La storia dell’urbanistica di Roma ci racconta infatti di una politica illuminata di gestione della spesa pubblica, messa in atto solo un secolo fa, una lezione dalla quale avremmo tanto da imparare.

Il Comune di Roma, a causa della cosiddetta politica urbanistica della convenzione[3] – orchestrata dal Cardinale De Merode a favore di se stesso e degli speculatori fondiari – all’indomani del trasferimento della Capitale d’Italia, subì un tracollo finanziario.

Fu così che all’inizio del Novecento il Comune provò, riuscendoci appieno, a sanare il bilancio entrando in regime concorrenza con i costruttori privati.

«In una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti[4]».

Così, ai primi del Novecento, grazie alla politica illuminata del sindaco Nathan, e alla presenza al governo di Giovanni Giolitti, nonché grazie alla istituzione e gestione dell’Istituto per le Case Popolari, fu possibile concepire un sistema del tutto nuovo di gestione della spesa per l’edilizia pubblica, il cui primo passo può riconoscersi nella vicenda del Quartiere Testaccio di Roma.

All’inizio del XX secolo il quartiere romano di Testaccio era considerato un luogo malfamato, violento e pericoloso, alla stessa stregua dell’attuale ZEN di Palermo.

Dopo l’unità d’Italia il quartiere avrebbe dovuto svilupparsi come la zona industriale della nuova Capitale ma poi, per volontà dei regnanti, si pensò bene che il centro-sud d’Italia non dovesse essere investito dal processo di industrializzazione … era più utile mantenerlo in condizioni tali da poter fornire manodopera a basso costo per le industrie del nord.

Così, già a partire dai primi anni che seguirono il trasferimento della Capitale, il quartiere divenne un quartiere popolare dove si insediarono le famiglie dei lavoratori del nuovo straordinario mattatoio dell’ing. Ersoch, e quelli delle poche industrie situate all’Ostiense.

In assenza di un Ente Statale che costruisse le case per il ceto operaio – l’ICP venne creato solo nel 1903 – queste vennero realizzate ad opera di banchieri, famiglie nobili e ad opera della Chiesa; tuttavia, nonostante le indicazioni della giunta municipale presieduta da Camporesi affermassero che «non si ammettono quartieri destinati esclusivamente per la classe meno agiata, raccomandandosi invece che venga distribuita in opportuni alloggi collocati nelle abitazioni ove soggiornano le classi meglio favorite dalla fortuna»[5], gli edifici costruiti mirarono semplicemente a fornire una facciata decorosa, che nascondeva delle condizioni di vita disumane.

La tipologia edilizia scelta, per ragioni speculative, fu quella a “blocco chiuso”, che facilitava una speculazione intensiva delle aree, ovvero quella tipologia che, di lì a poco, venne criticata come “casermone” o “alveare umano”, all’interno della quale, sotto l’egida del padrone di casa, vigeva il sistema del subaffitto; sistema perverso che serviva al proprietario per giustificare il costante aumento della pigione, e all’affittuario per spillare soldi ai subaffittuari con la scusa che non ce la faceva a pagare l’affitto. La cosa ovviamente portava alle estreme conseguenze che si possono immaginare: mancanza di privacy, violenze di ogni genere, danneggiamento degli edifici, condizioni di sovraffollamento con pessime condizioni igieniche, ecc.

Testaccio nel 1905 rappresentava un problema anche superiore a quello registrato nel 2005 nelle banlieues francesi. Le condizioni abitative di quel quartiere vennero descritte minuziosamente da Domenico Orano il quale, a seguito della sua esperienza diretta tra il 1905 e il 1910 pubblicata in quegli anni, creò il Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, un comitato che raccoglieva persone di qualsiasi appartenenza sociale, religiosa, politica e culturale, nonché diverse categorie di artigiani. Il Comitato riuscì a mettere in pratica la prima grande esperienza di laboratorio sociale e, soprattutto, la prima esperienza, riuscitissima, di urbanistica partecipata: l’urbanistica come disciplina non era ancora ufficialmente stata definita, ma ciò che avvenne a Testaccio dimostra come per questi pionieri il senso ultimo della materia fosse già chiaro!

Orano e altri riformatori ritenevano «dannosa la pianificazione di quartieri socialmente omogenei perché favorivano l’innalzamento e la cristallizzazione delle barriere classiste, rallentando il processo di integrazione urbana dei ceti subalterni»[6] mentre «il contatto fra le varie classi sociali vale non solo ad abbattere certe barriere morali … ma può avere un’influenza benefica sulle condizioni economiche ed intellettuali in genere del popolo»[7].

Nel frattempo, la migrazione verso Roma cresceva, e con essa anche la migrazione interna del ceto popolare che, necessitando di vivere vicino al proprio ambiente lavorativo, spontaneamente si muoveva verso la nuova area, a questi flussi spontanei si sommava il fenomeno della migrazione interna della gente allontanata dalla zone centrali in cui si operavano i primi sventramenti che, secondo l’ideologia del momento, dovevano creare dei nuovi quartieri “di rimprovero e insegnamento” nella vecchia Roma “lercia e puzzolente” come l’aveva definita Giovanni Faldella[8].

Tutto ciò portò alla proliferazione di baracche, definite “Villaggio Abissino” lungo gli argini del Tevere: un’offesa al decoro della Capitale che non poteva essere ammessa dalla classe dirigente.

In quegli anni, intanto, si era andata affinando la disciplina dell’Eziologia, ma si erano anche andati sviluppando diversi studi sociologici come quelli di Casalini a Torino e Montemartini a Milano; inoltre, quest’ultimo aveva studiato i metodi per la creazione di un sano sistema cooperativo coordinato dallo Stato.

Se da un lato si pensava a creare delle città più “funzionali”, grazie al contributo dei sociologi si rifletteva anche sul fatto che non ci si dovesse limitare a “produrre meglio per vivere meglio”, ma fosse necessario soprattutto “vivere meglio per produrre meglio”.

In questo clima socio-culturale, il Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio si batté affinché l’intervento proposto dall’amministrazione cittadina per la costruzione di alloggi temporanei non si operasse: «l’intervento non deve limitarsi a soddisfare il bisogno impellente di abitazioni, ma richiede un piano complessivo in grado di trasformare l’intera area».

A quel tempo, i privati avevano costruito moltissimi alloggi per i ceti medio-alti della borghesia, dimenticando i ceti popolari. Questa situazione aveva, di fatto, creato uno squilibrio insostenibile tra alloggi a caro prezzo e carenza di alloggi popolari, aveva portato al terribile fenomeno della coabitazione (tuttora esistente ed ignorato), alla costruzione delle baraccopoli e, ovviamente, alla crescita esponenziale del valore fondiario.

La neoeletta giunta Nathan – la prima non legata al clero e alla nobiltà – intendeva risolvere il problema abitativo a partire dalla risoluzione del problema speculativo dei suoli mediante la formazione di un ampio demanio municipale che avesse la funzione di calmiere, e il potenziamento dell’edilizia pubblica sovvenzionata: il Congresso Internazionale sull’Edilizia Popolare che si tenne a Londra nel 1909, non a caso, aveva individuato nel mercato delle aree la ragione della crisi delle città, ed aveva indicato come rimedio una vasta acquisizione di aree da parte degli enti pubblici al fine di destinarle ad uso collettivo, rompendo la spirale speculativa.

In quegli anni Alessandro Schiavi indicava tre passi fondamentali per sconfiggere il problema:

  1. Rompere il monopolio dei proprietari terrieri dei terreni e delle abitazioni esistenti;
  2. Attirare il capitale privato nell’attività edilizia;
  3. Incentivare la ricerca tecnologica per ridurre i costi.

Tutto ciò si traduceva nella necessità che l’amministrazione pubblica, statale e locale, assumessero un ruolo pianificatorio, ma anche che lo Stato sostenesse l’imprenditoria privata e sovvenzionata per aumentarne la produttività.

Sempre in quagli anni, l’ing. Edoardo Talamo andava sostenendo la necessità che «la casa dei ceti popolari dovesse essere strumento di educazione ed emancipazione, coniugando gli spazi privati degli appartamenti agli spazi comuni per assolvere ai bisogni comuni»[9].

Considerate queste premesse relativamente al costo dei suoli, uno dei principali motivi di critica da parte del Comitato per il Miglioramento di Testaccio relativamente alle casette provvisorie batteva sull’antieconomicità di un piano che sottoutilizzava le aree, tra l’altro, la «destinazione delle case ai disoccupati, prevedeva una rinuncia in partenza a qualsiasi remunerazione del capitale investito, ricadendo in una logica di assistenzialismo elemosiniero che ostacola la crescita della responsabilità civile tra i ceti emarginati», infine, il progetto era valutato «socialmente e politicamente angusto, poiché sanciva con un’operazione istituzionale la marginalizzazione dei baraccati».

Uno degli aspetti più interessanti della battaglia di Orano e del Comitato era incentrata contro la negazione, emergente dal piano delle casette, di un’identità collettiva fondata sull’orgoglio dell’appartenenza ad una comunità operaia di lavoratori, che contribuendo alla crescita dell’intera città, avevano acquisito il diritto di determinarne le scelte[10]:

«si afferma che le baracche sono pel bisogno immediato, per i senza tetto, per i poveri che ingombrano i portoni, le mura, gli orti, i prati, che gettano un’onta sulla capitale d’Italia, che agli occhi degli stranieri ribadiscono l’accusa che noi siamo un popolo di pezzenti. Si larva con sentimentalismo da filantropi, che impressiona le masse, il grave problema edilizio … che in realtà soffoca lo sviluppo di Testaccio, perché questo quartiere è l’unico punto di Roma in cui convergano le vie di terra e di mare e sarà il grande centro operaio della capitale»[11].

Le varie richieste dei testaccesi vennero raccolte e trasformate in progetto urbanistico architettonico da parte degli ingegneri architetti Giulio Magni prima, e Quadrio Pirani poi, i quali furono in grado, lavorando fianco a fianco con il Comitato, di produrre il primo esempio di progettazione partecipata che portò ad un vero e proprio miglioramento della condizione abitativa, ma anche economica e sociale dei residenti, dando delle aspettative di vita totalmente nuove e dimostrando la validità della teoria secondo la quale la casa potesse svolgere un ruolo educativo sui residenti.

Nel 1918, all’indomani dell’inaugurazione degli edifici di Pirani, il Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi, nel testo “il nuovo gruppo di case al Testaccio” affermava:

«Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita».

Subito dopo, lo slogan dell’IRCP divenne “la casa sana ed educatrice”.

Ma la battaglia non vide affrontare solo gli aspetti socio-sanitari ed estetici delle nuove costruzioni, ma anche quelli economici, partendo dall’affermazione secondo la quale il lavoro nobilita l’uomo … e qui viene il punto più importante di questa storia sul quale l’attuale classe politica di “privatizzatori” e “svenditori” dovrebbe riflettere.

In quegli anni Montemartini aveva teorizzato ampiamente in materia di cooperativismo, e la Roma di quegli anni sembrava essere più che altrove l’incarnazione di quel “partito dei consumatori” in base al quale Montemartini sosteneva si potesse impostare una corretta politica di governo urbano, di qui la scelta di coinvolgere nella politica progressista, non solo il ceto popolare, ma anche quello della piccola e media borghesia.

Fu così che si andò sviluppando l’idea che la costruzione di Testaccio potesse costituire un’occasione per rafforzare il sistema delle cooperative romane, una buona parte delle quali era proprio costituita da testaccesi.

Il presidente dell’IRCP Vanni decise così di non appaltare i lavori ad un’impresa privata (Ricciardi-Mannaiolo) che aveva messo a disposizione 10 milioni impegnandosi a costruire tutti gli edifici in 18 mesi, ma di affidare i lavori ad 11 diverse cooperative:

«la proposta dell’impresa presentava indubbi vantaggi: l’anticipo del denaro che doveva essere erogato dallo Stato, tramite un prestito agevolato garantiva tempi più brevi per la realizzazione del progetto. L’amministrazione capitolina si sarebbe politicamente rafforzata, dimostrando di essere in grado di soddisfare rapidamente il bisogno, impellente per la popolazione di case a basso costo. La scelta, viceversa, di affidarsi alle cooperative, voluta dai socialisti, intendeva dimostrare la possibilità concreta di creare anche a Roma un tessuto produttivo alternativo alle imprese private»[12].

Orano e il Comitato, con la costruzione delle case di Testaccio, memori della lezione di Montemartini sulla gestione della città moderna fondata sul partito dei consumatori, tentarono di fondare un modello di democrazia partecipata in cui i soggetti sociali fossero, allo stesso tempo, produttori e consumatori del bene casa … e così fu, grazie anche all’esistenza Comitato Centrale Edilizio[13] e dell’Unione Edilizia Nazionale«un Istituto che è fatto appositamente per integrare gli sforzi delle cooperative, quindi per controbilanciare la privata speculazione»[14]finché, per volontà di Stato, durante il ventennio fascista l’Unione venne messa in liquidazione e sciolta[15] e l’Istituto per le Case Popolari non venne ridotto da florida azienda che costruiva in proprio e anche per conto terzi gli edifici da gestire, a semplice Ente di gestione del patrimonio edilizio costruito dai privati.

Ebbene si, l’ICP di cento anni fa aiutò a risollevare le fallimentari finanze comunali, generò migliaia di posti di lavoro consentendo altresì lo sviluppo di una vasta economia locale di piccole e medie imprese a carattere artigianale.

Perché quindi non dovremmo oggi far tesoro da quell’insegnamento?

Il futuro dello ZEN, dunque, potrebbe risiedere nella riscoperta delle leggi e strumenti che consentirono il “miglioramento economico e morale di Testaccio”, e con esso il miglioramento delle esangui casse pubbliche … non dobbiamo inventare nulla, ma solo riscoprire ciò che sapevamo fare e, con la riscoperta dell’illuminato modo di gestire la spesa pubblica, urge riscoprire l’importanza del ritorno al “disegno della città” abbandonando la follia dell’urbanistica dello “zoning” imposta dalle normative vigenti! … La cosa gioverebbe non poco alla società.

Piuttosto che promuovere leggi tendenti a massacrare il mondo del lavoro, leggi che mirano a tutelare solo gli interessi di banche private ed aziende che, piuttosto che dar da lavorare agli italiani, producono il “Made in Italy” in Paesi che consentono lo sfruttamento della manodopera in semischiavitù, lo Stato potrebbe creare un Ente simile a quello che vedeva Comitato Centrale Edilizio e l’Unione Edilizia Nazionale operare in modo da integrare gli sforzi delle cooperative per controbilanciare la privata speculazione. L’intera nazione potrebbe risorgere dalle proprie ceneri rimettendo mano a tutte le periferie italiane figlie della folle ideologia alla base dei progetti come lo ZEN di Palermo.

Ne scaturirebbero migliaia e migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato, nonché un grande sviluppo della piccola e media imprenditoria locale, e soprattutto dell’artigianato locale, che l’Ente potrebbe coordinare.

Proviamo allora ad immaginare quanto meno verrebbero a costare le Grandi Opere se venissero costruite da chi dovrebbe amministrare la spesa pubblica con la diligenza del buon padre di famiglia, proviamo ad immaginare come lo Stato che costruisce e gestisce i suoi edifici non tenderà più ad operare secondo il principio del “prendi i soldi e scappa”, ovvero fregandosene dei futuri costi di manutenzione degli edifici pubblici, costruiti con tecniche e materiali deperibili.

Proviamo infine ad immaginare quello che potrebbe essere il ritrovato potere d’acquisto di questa grande fetta di popolazione non più disoccupata o precaria, equamente distribuita sul territorio italiano senza rischi di mobilità. Questa ritrovata garanzia di futuro riporterebbe i giovani italiani  a credere nella possibilità di metter su famiglia!

Voglio ricordare a coloro i quali parlano di sostenibilità prendendo in considerazione solo gli aspetti energetici – peraltro in maniera spesso discutibile – che la sostenibilità passa soprattutto attraverso quegli aspetti socio-economici che costantemente vengono ignorati, in primis da quei politici e uomini di chiesa che, retoricamente, si ergono a paladini della famiglia!

Il recente interessamento del Vicepresidente Vicario del Consiglio Comunale di Palermo Nadia Spallitta e la sua proposta di “Demolire e ricostruire lo Zen[16]” sembra finalmente ridare la speranza che dalle parole si possa passare ai fatti!

Prof. Ettore Maria Mazzola

 

 


[2] Andrea Sciascia, Tra le Modernità dell’Architettura – la questione del Quartiere ZEN 2 di Palermo, L’Epos Edizioni, Palermo 2003.

[3] Per precisare di ciò che si intende per “convenzione”, cito la chiarissima spiegazione che ci dà Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag. 367: «la convenzione è un contratto tra il proprietario di un terreno e il Comune. Il proprietario si impegna a cedere al Comune ad un prezzo modesto le superfici stradali (generalmente secondo un tracciato fatto dal proprietario stesso) quindi ridotte al minimo indispensabile per la sola circolazione [questo commento è mio] e raramente qualche area per i pubblici servizi (scuola, mercato, ecc.); il Comune si impegna a costruire le fogne, l’acquedotto, le condutture del gas, i marciapiedi, il selciato, la pubblica illuminazione, le fontanelle e i tombini per l’innaffiamento e si impegna alla manutenzione permanente di tutto ciò (oppure il Comune incarica, sempre a proprie spese – abbondantemente anticipate – lo stesso proprietario di realizzare queste opere). Il Comune infine autorizza la costruzione dei lotti risultanti dal tracciamento delle vie, secondo il progetto presentato dal proprietario, raramente con qualche modificazione».

[4] Italo Insolera in “Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo

[5] B. Regni, M. Sennato, “l’ex quartiere operaio di Testaccio”, Capitolium, n°10, 1973

[6] Questione ampiamente dibattuta al IV congresso internazionale d’assistenza pubblica tenuto a Milano nel 1908;

[7] D. Orano, Come vive il popolo a Roma, Pescara 1909;

[8] Giovanni Faldella, Roma Borghese, Roma 1882

[9]Istituto Romano dei Beni Stabili, La casa moderna nell’opera dell’Istituto Romano dei Beni Stabili, Intr. Di E. Talamo, Roma, 1910;

[10] Simona Lunadei, “Testaccio un Quartiere popolare”, Franco Angeli Editore, Milano, 1992;

[11] Domenico Orano, Case non Baracche, Relazione per conto del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, Roma, 1910;

[12] Simona Lunadei, “Testaccio un Quartiere popolare”, op. cit;

[13]Presieduto dal Ministro dell’Industria, Commercio e Lavoro ed era costituito dai rappresentanti ministeriali, del Comune, della Cassa Depositi e Prestiti, dell’Unione Edilizia Nazionale, dell’Istituto Case Popolari, dell’Istituto Cooperativo per le Case degli Impiegati dello Stato e da un gruppo di consulenti.

[14] Archivio della Camera dei Deputati, Discussioni, 1° sessione, 1° tornata del 4 agosto 1921, pag. 1247.

[15]R.D.L. 24 settembre 1923, n°2022.

 

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3 Thoughts to “Lo ZEN di Palermo continua a far discutere…Ma quand’è che si passerà ai fatti?”

  1. ettore maria mazzola

    grazie per l’ospitalità,
    spero che ne nasca un dibattito costruttivo in attesa di incontrarci presto a Palermo
    Buon Anno
    Ettore Maria Mazzola

  2. Irexia

    Non vedo l’ora che si cominci a fare qualcosa anche per questi cittadini di Palermo!
    La vivibilità di un posto dove stare deve essere l’obiettivo principale di ogni progettista!

  3. Athon

    Speriamo che tutto vada in porto senza tante lungaggini. A questo punto si confida nell’interessamento di Nadia Spallitta. Prof. Ettore Maria Mazzola, buon anno anche a lei.

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